domenica 12 maggio 2024

LEANDRO CASTELLANI - EDUARDO E IL PERSONAGGIO

 

 (Ripubblico qui il saggio, scritto a ventidue anni di età, che mi fruttò la chiamata alla redazione dela rivista universitaria  "Rcerca")

 


1

 Attore è chi vive ogni sera il personaggio, chi presta un tessuto di forze, di sensazioni, di movenze, di voci alla sua parte, all’immagine che, suscitata da un testo, vivrà in lui solo per una sera. Perchè ogni sera ci sarà un nuovo personaggio, anche se il testo rappresentato non muterà, un nuovo personaggio che un tempo nuovo farà scaturire dalla vita dell'attore.

L'attore è vita, creazione continua, la forma pura; e il dramma dell’attore è quello di dar vita al personaggio così come questi la invoca, di non snaturarlo e tradirlo imponendogli parte di sè, costringendolo ad essere azione o parola o gesto e non vita che è tutto questo insieme e molto di più.

Vien fatto di richiamare queste idee a proposito della giornata teatrale di Eduardo De Filippo, un attore tutto inteso ad « essere » più che a « parere », tutto volto a questo rito di identificazione col personaggio. Il paragone più immediato, una eco più che un confronto critico, è quello con Molière: il fascino prepotente di chi creava ogni sera un « misantropo » o un «malato immaginario » per una sera soltanto. Ormai resta a noi solo la traccia del viaggio spirituale dell'attore Molière, i suoi testi - e sono cose da far gridare al miracolo il critico letterario - ma la creazione dell’attore Molière si è diffusa nel tempo.

La recentissima pubblicazione presso Einaudi delle ultime due commedie di Eduardo ci ripropone, così come ad ogni sua nuova commedia, l’esame globale della complessa personalità di questo attore-autore. Siamo al problema antico e sempre nuovo che nasce con la Commedia dell'Arte, o forse molto prima, e che risorge con diversi caratteri ogni qualvolta ci si trovi in presenza di un autore che sia anche attore, o meglio di un attore che sia anche autore. In tali opere il primo momento appartiene sempre al personaggio concepito e vissuto dall’attore, risolto e concretato

in modi di rappresentazione: l'intuizione teatrale è sempre la fondamentale. E' questa la linea di svolgimento di tutti gli scrittori di teatro che furono anche « uomini di teatro », in senso lato « attori », uomini cioè portati a intuire la vita del personaggio nella creazione del gioco teatrale, il gioco più totale di identificazione creato dall'uomo. Da Shakespeare, a Molière, a Goldoni. Per tali spiriti il testo non può identificarsi con la totalità della creazione ma ne rappresenta la traccia in parole: l’unità è solo quella del palcoscenico. Ecco perché si rivela insufficiente e inadeguata la semplice lettura anche di un capolavoro: « King Lear » come « Le misanthrope ». Da questo punto di vista anzi potremmo dividere le opere di teatro in due grandi gruppi: le creazioni degli autori-attori, che non tollerano la

lettura ma esigono la rappresentazione pena la perdita di elementi vitali, e le creazioni degli autori-letterati, che, anche se sopportano la rappresentazione, non posano sostanzialmente su questa (Manzoni tragediografo, Alfieri). Divisione quanto mai elastica che non implica naturalmente giudizio di valore.

Come tutto il vero teatro anche quello di Eduardo si precisa e concretizza attraverso un linguaggio parlato ed un linguaggio scenico: due facce inseparabili di un’unica sintesi.

I suoi copioni ci offrono la trama parlata, l'ordito tracciato perchè diventi vita: ecco la funzione di quelle diffusissime didascalie che cercano di disegnare lo schema dei giochi scenici, accenti intraducibili e non tramandabili che per via di temperamento e

mestiere:

« Gennaro – (la guarda teneramente. Avverte negli occhi della fanciulla [la figlia] il desiderio d’un bacio di perdono, così come per Amedeo. Non esita. L’avvince a sè e le sfiora la fronte. Maria Rosaria si sente come liberata e, commossa, esce per la prima a sinistra. Gennaro fa l'atto di bere il suo caffè, ma l’atteggiamento di Amalia stanco ed avvilito gli ferma il gesto a metà. Si avvicina alla donna e con trasporto di solidarietà, affettuoso, sincero, le · dice}: Teh... Pigliate nu surzo ’e cafè… (Le offre la tazzina. Amalia accetta volentieri e guarda il marito con occhi interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: « Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando? ». Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza). S’ha da aspettà,  Amà’. Ha da passa ’a nuttata. (E dicendo questa ultima battuta, riprende posto accanto al tavolo come in attesa, ma fiduciosa). (Battuta finale di “Napoli milionaria”).

Ma le creazioni di Eduardo non vivono solo sul filo della rappresentazione, porgono una tematica ricca e filtrata da una sensibilità diffusa e attenta. Il tema dì tutta la letteratura napoletana, comica o no, -  il contrasto fra la saggezza e il tempo - si arricchisce di nuovi sviluppi. Pure nella cadenza malinconica del racconto, il pessimismo non sarà totale: la lezione del siciliano Pirandello si scontrerà con quella meridionale del «Platone in Italia »: anche nella vittoria del tempo la saggezza, l’umanità, l’oro di Napoli, potrà sopravvivere, e sarà in fondo anche la sua vittoria: “Napoli milionaria”, “Filomena Marturano” “Questi fantasmi”, “Mia famiglia”, per fare alcuni nomi.

Saggezza tutta terrena che si celebra nell’opporre il suo senso di riduzione al tempo, nello scoprire in ogni cosa semplice un motivo di pace, e viene a identificarsi un poco con la nostalgia del « tempo che fu» al vedere insultate le cose di tutti i giorni, i piaceri non artefatti, i principi intoccabili, resi sacri dalla tradizione, di famiglia, lavoro, onestà: nasce il dramma, il contrasto fra questo bagaglio di cose che la saggezza sente sue e la superficialità di chi muta faccia, di chi è pronto a rinunciare a Napoli (intesa come patrimonio di umanità) per abbracciare l’interesse nuovo, la fonte immediata di ricchezza, il mutare.

Il contrasto fra la saggezza e gli aspetti del tempo può assomigliare a quello classico fra Pantalone e le maschere dell'arrivismo (non Pulcinella che è sempre se stesso e perciò saggio, ma Lelio, Arlecchino, Colombina) e si vela quindi di moti, spunti e azioni decisamente comiche fino al grottesco. Assomiglia, d'altro canto, anche al contrasto fra l’io (come fondo immutabile di umanità) e le immagini (una, nessuna, centomila): e siamo alla dialettica pirandelliana - non si dimentichi che Eduardo inizia il secondo tempo della sua opera dialogando una trama di Pirandello, « L'abito nuovo ». - In ciò Eduardo sperimenta una nuova intuizione del dramma del suo personaggio, chè l’errore del tempo coinvolge la saggezza stessa e sembra perderla: anche questa è spesso una occasione per quel suo umorismo triste, per quella comicità velata d'amaro. La saggezza rischia di perdere tutto, di cadere nella caparbietà per non venire a compromessi con l’esigenza vera che è talvolta celata nel tempo. Ma è sua la vittoria finale: essa saprà porsi ancora, più cosciente, più vera, quale centro della nuova costruzione morale:

« ...voglio parlà. Puo darsi che sono ancora in tempo. (Come per

reclamare un suo diritto). Voglio parlà. E voglio dire tutti i luoghi comuni, le frasi più vecchie; non mi vergogno! Voglio citare i proverbi più antichi: L’arta ’e tata è meza ’mparata. Chi va per questi mari questi pesci piglia. Chi te ne fa una te ne fa mille. Chi pratica lo zoppo impara a zoppicare. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Meglio l’uovo oggi che la gallina domani. (Si ferma per un attimo scrutando l’impressione di ognuno, poi chiede bruscamente). E non ridete? Io sto dicendo le cose più antiche, e non ridete? Come vedete un passo lo abbiamo fatto: voi mi sentite dire queste cose rancide e non ridete. E io le dico e non mi vergogno. E' importante… è importante assai. Questo significa che voi avete tentato di farmi diventare una cosa inutile; ma che non ci siete riusciti; e che io ho creduto di trovarmi di fronte a gente che vedeva con un occhio più aggiornato dei mio e non era vero. E' importante... è un miracolo! ».

(« Mia famiglia », atto Il).

Eduardo ci offre oggi una dimostrazione di fede nel teatro, nel personaggio come creazione, come vita, come mediazione di vita al pubblico, svolgendo i suoi temi con una coerenza che non si preclude ampi sviluppi, con un senso umano d’indagine che non si pone stretti confini, costruendosi ogni volta personaggi completi.

 

2.

Dalla « farsa » alla « tragedia delle farse »: si potrebbe sintetizzare così la storia della produzione teatrale di Eduardo. Nel  primo tempo della sua opera (fino al dopoguerra, approssimativamente) è un lento svolgersi dai modi comici e furbeschi del teatro dialettale napoletano, quel teatro che si rifà direttamente alla Commedia dell’Arte attraverso le esperienze del « San Carlino » e le farse classiche di Eduardo Scarpetta, il teatro di Pulcinella per intenderci, con il suo repertorio di lazzi, di movenze e di fondamentale saggezza Un tempo da non ignorare nè da disprezzare se ci frutta alcune delle creazioni più vivaci e ricche di umorismo della densa tradizione comica napoletana. Non si può spiegare Eduardo senza la scuola scarpettiana che in lui vuol dire “teatro”, amore dell'effetto comico, dell'azione vivace e compiuta, senza residui di letterarietà, risolta interamente sul palcoscenico, del gioco mimico preciso, attento. Ma già, in questo comun-denominatore del teatro comico dialettale, Eduardo si inserisce con una novità d'invenzione sorprendente unita a doti d'osservazione non comuni: « Natale in casa Cupicllo » (1930), vero preludio in tono scherzoso alla sua grande stagione. In fondo la malinconia è il succo di ogni allegria protratta a lungo, di ogni allegria che voglia indagarsi: questo schema ci aiuta a comprendere l’intima genesi del dramma eduardiano. Ad un certo punto il puro gioco pare peccato, tradimento, e nasce il bisogno di esaminarsi per distinguere il riso dell’ottimismo da quello del fantoccio, sorge il bisogno di assicurarsi che il riso non sia solo un'apparenza vuota, il ghigno di una « maschera nuda ». Ed Eduardo passa per il polo Pirandello: un fenomeno di demolizione interiore che il teatro contemporaneo potrà superare, non ignorare: le ricostruzioni contemporanee passeranno tutte attraverso la catarsi pirandelliana concludendo la sua posizione negativa in uno scetticismo totale o correggendola in uno slancio verso l'infinito, in una nuova strada verso l’ascesa.

Con “Napoli milionaria” (‘45) un grumo fitto di umanità sofferente invade il palcoscenico di Eduardo. Gli schemi di riduzione che servirono a Scarpetta per trasformare le figure dell'ultimo ottocento in « macchìette » sono sorpassati in uno slancio poetico e lirico. La tecnica di un mestiere smaliziato, fusa con un forte senso poetico, agisce ormai come strumento di trasfigurazione teatrale. La lezione di Pirandello e quella vicina, urgente e drammatica, del conflitto mondiale e del triste dopoguerra hanno prodotto una crepa profonda: il teatro di Eduardo non ha più l'innocenza dell’infanzia, non se la sente più di scherzare con una ventina di marionette umane che il tempo gli offre, l'innocenza consapevole della maturità, un'innocenza sostanziata di peccati scontati, di colpe perdonate: ecco la differenza che passa tra Settebellizze, arrivista e trafficante, e il «guappo », tra Amalia e la « moglie tiranna », tra Gennaro e Felice Sciosciammocca, la maschera scarpettiana; non che siano antitesi vere e proprie, c'è solo un di più di complessa umanità.

Infatti, a pensarci un poco, ogni personaggio di questa commedia può richiamarci alla memoria un tipo classico, una maschera della commedia di sempre: Gennaro è Pulcinella o meglio Sciosciammocca, Maria Rosaria è la Colombina civetta, Peppe 'O

Cricco il mariolo, e cosi via... Solamente che Eduardo non si è fermato al tipo ma è sceso all’anima di ognuno, ha voluto sulla sua scena dei personaggi, cioè dei caratteri, non delle maschere; e

si sforza di capire, nella ridda degli avvenimenti, le norme dell’agire di ognuno. Il suo atteggiamento interiore corrisponde quasi sempre a quello del protagonista: ci dev’essere un perchè, non è possibile che lo sfacelo sia totale; s’ha da trovare la possibilità per ricostruire.

Rinuccia, la figlia più piccola di Gennaro, è in fin di vita: l’avvenimento agirà su tutti provocando la revisione completa, prospettando il senso vero ed eterno delle cose di contro alla caotica marea del dopoguerra: la saggezza vittoriosa potrà sperare:

« Cchiù 'a famiglia se sta perdenno e cchiù 'o pate 'e famiglia ha da piglià, ’a responsebìfità. (Ora il suo pensiero come verso la  piccola inferma): E se ognuno putesse guarda’ ’a dint’ ‘a chella porta... ogneduno se passaria 'a mano p’ ’a cuscienza... ».

Il problema dell'origine pirandelliana di Eduardo sì ripropone con «Questi fantasmi» (1946), la commedia più ampia forse di Eduardo, disposta su una trama originalissima e inconsueta, e tutta lavorata in profondo, con un equilibrio perfetto fra dramma e commedia, fra comico e tragico. La negazione pirandelliana è, come si diceva, un passaggio d'obbligo per gran parte del teatro contemporaneo mondiale: ogni ricostruzione partirà dal dissidio interno dell’uomo fra essere e sembrare. In Italia si potrebbero indicare due soluzioni principali: quella di Ugo Betti, che muove da Pirandello per giungere alla lucidità spettrale e al forte anelito

di salvezza dei suoi drammi, e quella di Eduardo che, attraverso la sua pietà, la filosofia della saggezza, quella di Napoli, vecchia da sempre, vuol arrivare ad una nuova consapevolezza dell’uomo. E' ancora il dissidio pirandelliano che può spiegare i cento simboli di Jean Giraudoux, stilizzazioni di umanità agenti in un quadro surreale ma vincolato a problemi aperti e a moti attivi (“La folle de Chaillot”). Dissidio che troviamo all'origine dei personaggi titanici e dei parossismi vigorosi dell'O'Neill dei miti greci e più di Arthur Miller (« Erano tutti miei figli » e «Morte di un commesso viaggiatore »). La necessità di ricostruire, di edificare, di indagare fino alle radici le apparenze,  è la linfa di tanto teatro contemporaneo: così Eduardo può dirsi pirandelliano e moderno, nuovo e universale.

Ma la sua problematica non affonda mai nel cerebralismo (per quanti autori contemporanei si può ripetere la stessa cosa?): indagine è pietà, pietà è poesia: ecco i termini del suo discorso. Pietà profonda per l’umanità che finisce sempre col vincere il rancore, la stizza, lo sfogo polemico del primo urto; pietà e poesia che gli permettono, ad esempio, di raffigurare sulla scena i piccoli, i vecchi, i minorati, con una delicatezza che rifugge in partenza dalla tentazione di grossolani effetti cornici: basti pensare ai due personaggi di Carmela in « Questi fantasmi » e di Pasqualino in « Bene mio e core mio »:

« Io non sono scemo, hai capito. Io a dieci anni ero già deficiente, e quella mi chiama scemo… Sai come ha detto il prete a mammà? Ce lo puoi domandare... mammà sta llà. Il prete dicette: "Signora Virginia, il deficiente è sacro!”. Chiamami scemo un’altra volta, e poi vedi la Madonna come ti punisce tanto bello».

Si può concludere che quello di Eduardo è un «pessimismo che il palpito lirico sfoca e ammorbidisce » (A. Fiocco).

Contenuto e tematica universali si è detto, ma questo contenuto  ha la voce di Napoli. Eccoci introdotti a parlare un poco del linguaggio. I personaggi di Eduardo non sono dei puri e un poco astratti cittadini del mondo come quelli di Ugo Betti ma, pur avendo in comune con tutti gli uomini doti intime di sensibilità e spiritualità, sono tutti napoletani, ambientati geograficamente e psicologicamente a Napoli; e di Napoli conservano i tratti, il modo di vivere, le concezioni, la mentalità concreta, gli interessi: tutta Napoli con i suoi vicoli, le sue miserie, la sua sconfinata potenza di poesia, la Napoli dei « clichés » liberata dal < cliché»,

sentita come un modo d'intendere; e gli errori dei personaggi saranno errori di Napoli, le loro vittorie le vittorie di Napoli, le loro parole quelle di Napoli. Ecco come il linguaggio dialettale sia intima necessità, una cosa sola con il discorso della mente, così come il Padron 'Ntoni verghiano non può non parlare e  pensare siciliano. E lo strumento, il linguaggio napoletano, della sua indagine nel reale, della sua inchiesta nella società che gli è vicino, sta a dire come i suoi personaggi non si prestino mai ad essere interpretati unilateralmente come facce di un tema, come aspetti di un problema, ma presentino sempre una precisa individuazione psicologica: « Filumena Marturano» (1946), «Le voci di dentro » (1948).

Dialetto napoletano con le sue mille gamme: dove il barocchismo di un'espressione lirica ridondante non può mai venir confuso con un astratto residuo letterario (chi ha mosso questa osservazione nei confronti di Eduardo è del tutto fuori strada) ma sta a tradurre un preciso modo di sentire; un dialetto saggissimo che profitta di tutte le esperienze degli scrittori in vernacolo: dalle scene realistiche tracciate con un linguaggio diretto, brioso, efficace,   allusivo, agli squarci lirici e patetici dove è viva la eco dell’essenzialità del Di Giacomo, alla scorrevolezza parlata delle scene d’azione.

Linguaggio che si sviluppa in un perfetto equilibrio tra le più peculiari forme dialettali e le più lineari espressioni in lingua, con leggera prevalenza, nelle ultime opere, di locuzioni italiane costruite a vivo su schemi napoletani, col risultato di un effetto di grande freschezza. Basti pensare, come esempio di questo stile vivace, al lungo monologo di Chiarina (atto I di « Bene mio e core mio”) di cui citiamo un brano:

“E che me ne sono vista della vita? Tengo quarantadue anni, sarò andata a teatro sì e no quattro cinque volte. Non conosco cinematografo, non tengo amicizie. Ero giovanetta, sapete… a quattordici quindici anni cominciano i primi grilli  per la testa. Niente mi diceva la buonanima di mammà… che possa stare nella schiera degli angeli... ma  mi guardava mestamente, come per dire: ”Chiarì, mo’ ti metti ad amoreggiare? E la casa?” Mammà era delicata come una libellula, con un polmone solo, stava sempre: tienimi che mi tengo… papà occupato a fare il decoratore… quando tornava voleva trovare tutto pronto. Lui (indica Lorenzo) giovanotto, camicie toglieva, camicie metteva… E Chiarina lavava, stirava, cucinava…”

C'è una forza viva che ci risospinge al “personaggio” di Eduardo, alla vita vera della sua commedia, impastata di serenità e di giochi radicati sulla malinconia, al personaggio che, annullando in un attimo la finzione e superando la barriera luminosa della ribalta, sa filtrarci, attraverso mille cadenze, la disincantata poesia dell’animo del suo autore.

 (RICERCA, 1 settembre 1956)

sabato 11 maggio 2024

LEANDRO CASTELLANI - ELOGIO DELLA FANTASIA

 

L’ho ereditata dai miei genitori, è stato il loro dono più importante. Mio padre, da giovanissimo, aveva vissuto l’avventura del cinema diventando Robinson Crusoè, il naufrago nell’isola deserta che si costruisce tutto un mondo di esperienze, di avventure, sognando la nave che lo riporti al suo paese lontano; la mamma era una creatrice di poesie e di fiabe e trovava sempre un ritaglio di tempo, fra le sue incombenze casalinghe, per costruirmi una marionetta, o per guidarmi in una lettura, tipo le novelle della Perodi, Dickens e Dumas. David Copperfield, I tre moschettieri, Il conte di Montecristo: letture precoci. Anche i miei giochi non seguivano mai o quasi mai le regole dei giochi che facevano i miei coetanei. Con mia sorella, piccolissima neofita, giocavano alle gemme, ed erano le stagnole dei cioccolatini – una rarità – appallottolate in piccole biglie di vari colori e oggetto di scambio fra noi due, oppure alla scuola, imitando in modo alternativo e scherzoso il primissimo impatto con l’istituzione e costruendo registri e quaderni. Al mare, sulla bionda sabbia del Lido, non seguivo i più nella raffinata costruzione di piste – percorsi a forma di otto, curve soprelevate, tunnel - su cui far scorrere le palline di coccio, un gioco più “da grandi”, richiedente abilità che non possedevo e regole che non conoscevo, ma andavo sulla battigia a costruire castelli, con decorazioni ottenute facendo scivolare sulle torri dalle dita una pappetta di rena ed acqua, e mi piaceva costruirli nella zona più a rischio, più esposta alle onde che, seguendo la marea, venivano a morire sempre più avanti spostando il loro approdo e costringendomi ogni volta a tentare di bloccarle con dighe e paratie per salvare il castello e restaurarlo, fino a quando vinceva il mare e distruggeva, livellava tutto. Questo sofferto dono della fantasia mi ha sempre accompagnato, costruendomi una sorta di vita parallela, aiutandomi a immaginare immagini, una visione alternativa della realtà, il piacere di svolgere il mio mestiere di inventore e realizzatore di storie e personaggi. Me ne accorgo anche ora, frequentando Facebook che mi ha aiutato a ritrovare o più spesso a scovare una sintonia con tanti amici. Mentre i miei coetanei o quasi ricordano dettagli, episodi, nomi, volti ed episodi, io ricordo soprattutto sensazioni, impressioni, il riverbero su di me delle cose e degli accadimenti passati. Il come, il quando, il cosa non li ricordo. Forse ricordo il perché e la scia, profonda o più spesso leggera, che hanno lasciato su di me. La fantasia ha rimescolato e foggiato tutto di nuovo.